Attualità e Politica
27/01/2020 | 12:50
27/01/2020 | 12:50
ROMA - «Lo scenario più plausibile» in Emilia-Romagna è «l'espulsione del gioco pubblico dai territori e, laddove vi sia ancora spazio residuale nei Comuni, la concentrazione delle attività e la creazione di veri “ghetti”, di “distretti” del gioco, in spregio alla Conferenza Stato Regioni, alla giurisprudenza del Tar Lazio, ma anche a quella dei Tar Veneto e Toscana, che ci dicono che non si può vietare tout court un'attività che l'ordinamento considera lecita». È quanto si legge in una nota dall'avvocato Filippo Boccioletti, consulente As.Tro, che commenta gli effetti dell'applicazione del distanziometro di 500 metri dai luoghi sensibili. «Come emerge dai dati raccolti dalla CGIA Mestre nello studio commissionato da As.Tro, nella città di Bologna, solo per citarne una, ricadono nel divieto il 98% degli esercizi generalisti e 46 sale su 50, presenti».
Sul piano normativo, «un simile scenario si pone in aperto contrasto con quanto stabilito nell’intesa per il riordino dei giochi raggiunta in Conferenza Unificata nel 2017 - con il concorso dell'Emilia Romagna - ove è espressamente indicato alle Regioni e agli Enti Locali di tenere conto “anche della ubicazione degli investimenti esistenti, relativi agli attuali punti di vendita con attività di gioco prevalente” consentendo “una equilibrata distribuzione nel territorio allo scopo di evitare il formarsi di ampie aree nelle quali l’offerta di gioco pubblico sia o totalmente assente o eccessivamente concentrata”», continua. «Non tragga in inganno il fatto che la norma regionale preveda la possibilità per le attività di trasferirsi in una zona “franca”, che non abbia luoghi sensibili nei 500 metri prescritti: in realtà, le decine di perizie depositate nei ricorsi pendenti al Tar dimostrano come gli spazi “liberi” per spostare l’attività siano davvero esigui», sottolinea. «È vero che ad oggi la giurisprudenza è favorevole alla pubblica amministrazione e che un’unica ordinanza è stata impugnata dinanzi al Consiglio di Stato, ma è altrettanto vero che si tratta di un orientamento (basato, tra l’altro, esclusivamente sulla motivazione della prevalenza dell’interesse alla salute tutelato dalla norma, su quello economico di cui gli operatori sono portatori) formatosi all’esito di una cognizione sommaria, quale è quella propria della fase cautelare. Tale orientamento potrebbe mutare all’esito di un’analisi approfondita nella fase di merito, che tenga conto delle pregnanti ragioni degli operatori del settore e, magari tra 3/4 anni (visti i tempi medi della giustizia amministrativa nella nostra Regione), qualche sentenza potrebbe accogliere le pretese delle aziende operanti nel settore, che nel frattempo potrebbero essere state però irrimediabilmente chiuse». Il rischio per la pubblica amministrazione è «la condanna al pagamento di ingentissimi danni a carico dei Comuni e della Regione, a titolo di risarcimento per l’illegittima chiusura di attività lecite ed esercitate in virtù di provvedimenti autorizzatori», conclude.
RED/Agipro
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