Attualità e Politica
31/05/2017 | 16:15
31/05/2017 | 16:15
ROMA - Oggi si occupa di altro, ma il decreto che porta il suo nome è il big bang dal quale prendono origine gli attuali venti di riforma che investono il settore giochi. Il decreto Balduzzi, appunto, convertito in legge nel novembre 2012, portò nella legislazione nazionale i concetti di luoghi sensibili e di distanze, prevedendo una rapida intesa Stato-Enti locali in sede di Conferenza Unificata. Sono passati cinque anni e l'intesa è solo un pio auspicio. «Questo dimostra quanti siano gli interessi in campo - dice oggi, ad Agipronews, il professor Renato Balduzzi, allora ministro della Salute nel Governo Monti e attualmente membro laico del Csm - ma un accordo dovrà essere trovato. Cinque anni fa ci proponemmo di ridurre il gioco senza demonizzarlo e spero che su questo solco si apra una discussione seria che coinvolga non solo le istituzioni, ma anche gli operatori del settore. Conviene anche a loro una normativa chiara e uniforme».
L'accordo tra Stato ed enti locali sta inciampando proprio sul tema dei luoghi sensibili. Come nacque l'idea di prevederli nel decreto? «Fu una semplice constatazione della realtà – ricorda Balduzzi - Eravamo in un periodo in cui, con l'avanzare della crisi economica, si registrava una crescita sensibile del gioco d'azzardo. Moltissimi sindaci, specie di piccoli e medi centri, manifestavano il disagio delle loro popolazioni, messe di fronte a una proliferazione indiscriminata di sale giochi».
A supporto della linea governativa, spiega l'ex ministro, anche un affidabile corredo di informazioni: «Avevamo elementi per cogliere un aumento di quella che sempre più spesso sarebbe stata chiamata ludopatia. Ci siamo detti che lo Stato non poteva incentivare una simile evoluzione e abbiamo deciso che i punti di gioco dovessero essere tenuti a debita distanza da luoghi come scuole, chiese e ospedali. Essenzialmente avevamo due obiettivi: dare un messaggio alla collettività e decongestionare i nostri centri urbani rispetto ai punti di gioco, anche per difendere i minori».
Stabilire distanze e luoghi da tutelare era quindi un modo per arrivare alla riduzione dei punti di gioco. «Certo, e anche alla loro ricollocazione. L'effetto deterrente è chiaro: un conto è passeggiare per il centro e trovarsi davanti a una sala giochi, un altro conto è doversela proprio andare a cercare».
Questo è però un tema su cui batte spesso il sottosegretario all'Economia Baretta, che ha in mano la patata bollente del riordino del settore: spostare dal centro i punti di gioco significa creare in periferia quartieri in cui l'offerta si condensa e si moltiplica. «Io invece – ribatte Balduzzi - credo che il sistema delle distanze di gioco debba essere modulato per salvaguardare anche le periferie, che in Italia debbono essere riqualificate».
Nel decreto del 2012, l'elenco dei luoghi sensibili comprende solo “istituti scolastici primari e secondari, strutture sanitarie ed ospedaliere, luoghi di culto”. Una lista che coincide quasi esattamente con quella presentata dall'attuale Governo nell'ultima bozza di intesa (con i serT al posto delle strutture sanitarie e ospedaliere). Nei regolamenti comunali questo elenco viene però dilatato sensibilmente, fino a comprendere banche, sportelli postali, biblioteche e giardini pubblici. È un esagerazione, rispetto allo spirito del decreto? «In prima battuta, servono norme chiare a livello nazionale. Dopo di che è giusto lasciare un po' di autonomia agli enti locali, che agiscono in base alle peculiarità e alle esigenze dei territori che amministrano».
Sull'azione degli Esecutivi Renzi e Gentiloni, l'ex Ministro della Salute preferisce non scendere nei dettagli, «vista la mia posizione attuale». Ma un paio di cose tiene a dirle. La prima chiama in causa anche governi più lontani, nel corso dei quali il comparto giochi si è allargato a ritmi serrati: «Il Governo deve rispondere alla domanda di fondo: cosa vogliamo fare sul tema del gioco? Ridurre i danni o continuare sulla strada intrapresa in passato, ma oggi contestata da tutti, cioè quella di regolamentare senza disincentivare? Noi all'epoca una scelta l'avevamo fatta, pur provocando molte ostilità. La nostra fu una prima inversione di tendenza». E poi la stoccata: «Nel piano governativo si è parlato di sale di classe A, ma dobbiamo fare attenzione, perché la definizione evoca quasi un modello da seguire, una meta a cui tendere. Eviterei di parlare di modelli di classe A».
Nel suo decreto però si parla anche di “valenza educativa del tema del gioco responsabile” e di “iniziative didattiche volte a rappresentare agli studenti il senso autentico del gioco”. «Certamente, perché non avevamo una visione talebana della vita, in cui lo Stato possa dire esattamente cosa fare o non fare di una componente che è connaturale all'esistenza umana. Il problema è l'abuso, e basta entrare in una qualunque sala giochi per capire cosa voglio dire. In questo senso, anche la scuola deve fare la sua parte. Tutti coloro che vorrebbero abolire il gioco e non ridurlo devono capire che si tratta di un obiettivo molto difficile da raggiungere anche sotto il profilo giurisdizionale. Ma poi il problema sul tavolo non è quello di abolire il gioco, ma di limitarlo».
MF/Agipro
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