Attualità e Politica
15/05/2018 | 12:56
15/05/2018 | 12:56
ROMA - Il gestore di slot machine che non versa il prelievo erariale unico utilizzando “escamotage” informatici, non commette il reato di peculato, ma quello di truffa aggravata ai danni dello Stato o di frode informatica. È quanto ha stabilito la Sesta sezione penale della Corte di Cassazione sul caso di due gestori liguri, condannati a cinque e due anni di reclusione dalla Corte di Appello di Genova per peculato; per uno dei due imputati, inoltre, è scattata anche l’accusa di essere a capo di un’associazione a delinquere. Entrambi, dal 2007 al 2009, avevano occultato le somme dovute allo Stato «falsificando ed alterando le comunicazioni e i dati delle giocate» di numerosi apparecchi collegati alla rete statale, utilizzando «una scheda “clone” di contabilizzazione, al posto di quella originale». Ai Monopoli, dunque, non erano comunicati i dati effettivi delle giocate, ma solo quelli che arrivavano dalle schede originali, «determinati da giocate fittizie od occasionali, per importi enormemente inferiori a quelli reali».
Per la Corte di Appello di Genova, una situazione del genere configura «il peculato e non la frode informatica, perché si è verificata dapprima l'appropriazione delle somme e, solo in un secondo momento, l'attivazione del meccanismo fraudolento della mancata contabilizzazione delle giocate». Un punto di vista non condiviso dai giudici supremi: «Il denaro incassato all'atto della puntata, e a causa di questa, deve ritenersi non immediatamente di proprietà dell'erario, bensì interamente della società che dispone del congegno da gioco, anche per la parte corrispondente all'importo da versare a titolo di prelievo unico erariale», si legge nella sentenza. Dunque, «sembra ragionevole escludere che il soggetto che incassa le somme delle giocate riceva ab origine denaro di proprietà dell'erario, e affermare, invece, che il denaro così percepito costituisca il ricavo di un'attività commerciale, legittimamente o illegittimamente svolta, sulla quale è parametrata l'obbligazione tributaria». In questo caso, quindi, il gestore «non si appropria di una cosa altrui, ma omette di versare denaro proprio all'Amministrazione finanziaria in adempimento di un'obbligazione tributaria».
I due gestori, per la Cassazione, hanno comunque commesso il reato di truffa aggravata ai danni dello Stato, per l’uso di schede che occultavano i dati reali. Un accusa per la quale è però scatta la prescrizione. Su questo aspetto, la sentenza di condanna della Corte di Appello di Genova è stata annullata, mentre è stato confermato il reato associativo per uno dei due imputati, per il quale i giudici genovesi dovranno pronunciarsi nuovamente per la determinazione della pena.
LL/Agipro
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