Attualità e Politica
11/07/2017 | 15:20
11/07/2017 | 15:20
ROMA - Gli studi sul gioco patologico trovano nel Cnr di Pisa un crocevia obbligato. Un gruppo di ricercatori studia da anni il problema, producendo materiale che oggi, nelle more di un dibattito politico e sociale piuttosto serrato, può rappresentare un fondamentale punto di riferimento. Ne parliamo con Luca Bastiani, membro del reparto di epidemiologia e ricerca sui servizi sanitari dell'Istituto di Fisiologia Clinica del Cnr di Pisa, coordinato da Sabrina Molinaro. Un'equipe che da anni si occupa diffusamente di ludopatia.
Comuni e Regioni hanno affrontato finora il gioco problematico ponendo limitazioni all'orario di apertura delle sale e stabilendo distanze di sicurezza tra i punti di gioco e alcuni luoghi sensibili. Rimedi validi, dal suo punto di vista?
«Ritengo la loro efficacia limitata. Per i giocatori di una certa età possono funzionare, ma risultano inutili per i giovani digitalizzati, in grado di giocare in rete attraverso lo smartphone. Ecco perché il gioco on line è potenzialmente più insidioso di quello offerto sul territorio. Quindi, più che di parlare di limitazioni sull'orario e sulle distanze, si dovrebbe puntare sulla prevenzione e sulla cura».
Alcuni regolamenti, citiamo i casi di Firenze e Grosseto, sono stati bocciati dal Tar proprio per difetto di presupposti scientifici. Come si può rimediare a questa situazione?
«Nell'ambito scientifico italiano le ricerche validate in Italia sono quelle del Cnr e dell'Università di Firenze, Roma e Padova: per il resto, non c'è molto. Le amministrazioni comunali dovrebbero appoggiarsi a questi referenti, sennò si rischia di parlare di nulla».
Si parlava prima di prevenzione e cura: che tipo di disturbo è quello ludopatico?
«Fino a qualche anno fa era stato considerato una variante del disturbo ossessivo-compulsivo. Una classificazione basata sulla natura compulsiva dell'azione, associata all'incapacità di smettere. Oggi invece il gioco d'azzardo patologico è stato spostato nel capitolo delle dipendenze. Per questo i Sert accolgono anche i giocatori problematici».
Si è sempre detto come la parte più povera e meno istruita della popolazione sia maggiormente esposta agli eccessi nel gioco, nel quale si intravede una speranza di riscatto economico e sociale. È così?
«In realtà le cose sono cambiate. Fino a una decina di anni fa il giocatore problematico era una persona che aveva un profilo culturale basso, ora gli eccessi si spalmano su uno spettro sociale più ampio. In molti casi incidono maggiormente altri fattori, per esempio la solitudine. Chi resta da solo, senza famiglia, magari dopo aver divorziato, è più soggetto».
Quali sono i rapporti numerici tra giocatori “sani” e giocatori problematici?
«Rispondo con i dati del nostro studio del 2015, basato sulle nove domande previste dal “Problem Gambling Severity Index”. L' 83,2 % dei 5292 rispondenti è stato classificato come giocatore senza rischi. Per il resto, l'11,2% è risultato a basso rischio, il 4,3% a rischio moderato e l'1,3% rappresenta la percentuale dei giocatori problematici. Le cifre dicono che c'è una larghissima fascia di gioco “buono”, il cosiddetto gioco sociale. Quello che praticano tutte le persone che per il gioco non trascurano il lavoro, non complicano le relazioni familiari e non hanno problemi con la giustizia».
Sulla ludopatia girano numeri diverse e incontrollate. Quali sono le cifre reali?
«In Italia, parliamo di circa 300 mila persone. Si tratta di un'indagine campionaria e sicuramente il fenomeno è sottostimato. Dobbiamo comunque considerare che il giocatore problematico impatta anche sulla vita dei familiari: moglie, marito, figli, parenti stretti. In media, per ogni caso vengono coinvolte altre sei persone».
MF/Agipro
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